Quel che segue è un racconto che scrissi in quarto superiore per un concorso interno alla scuola. Al di là della qualità che possa avere, imbattermici e riflettere su come le idee base che mi stimolano la scrittura siano tanto diverse allora e adesso mi ha un poco emozionato.
Appena aprii la porta del vagone, la vidi: avrà avuto la mia età, o forse un po’ meno, e trasmetteva un’aria di tranquillità e pace.
In qualche strana maniera sembrava stare comoda, nonostante fosse – ed è questo ciò che più mi premeva dire− a testa all’ingiù.
Trasmetteva comunque una certa aria di compostezza: le ginocchia, appoggiate alla cima dello schienale, erano accostate, così come i piedi penzolanti sul retro.
Aveva un braccio disteso a toccare il pavimento sotto di sé, certo, ma non a caso si può parlare di una forza di gravità che ci spinge verso terra.
Approfittando della macchina fotografica che, al solito, mi penzolava al collo, le scattai una foto, perché anche quell’immagine curiosa rimanesse tra i miei ricordi.
Non so se fu colpa del flash, della mia solita mancanza di grazia nei movimenti o di quella forza che fa accadere le cose anche quando non vuoi o anche quando non puoi capire razionalmente la loro importanza, ma lo scatto fece giusto in tempo ad imprimersi sulla pellicola che lei aprì gli occhi.
Dico “lei” perché è ciò che pensai al momento… che fosse una ragazza, insomma. Ma non so cosa mi portò a dedurlo.
Aveva i capelli molto corti e dal corpo minuto non trasparivano forme che potessero venir considerate come un’auspicabile seno, eppure le lunghe ciglia e la sensazione di dolcezza che dava con il solo essere vista le davano un definito carattere femmineo.
Pur avendo aperto gli occhi, non mi disse nulla: non mi chiese chi ero, né perché la fissavo, né mi urlò contro per averla fotografata in quella bizzarra situazione. Iniziò a guardarmi e continuò, semplicemente.
“M-mi scusi” le feci allora “l-l’ho forse svegliata?”.
Lei mi sorrise impercettibilmente.
“No, figurati. Non stavo dormendo.”
Anche la sua voce era dolce, pur non avendo neanch’essa un carattere definitivamente maschile o femminile.
Fui indecisa per un momento se scusarmi o no per la foto, dato che l’educazione mi invogliava a farlo e al contrario il buon senso no. Insomma, chi mi poteva assicurare che se ne fosse accorta davvero? Scusarmi m’avrebbe solo portato ad incolparmi.
“Ma… se non fosse per lei troppo disturbo… potrei chiederle perché si trova in quella posizione?”
“Perché sto pensando”
Eh?
Mi chiesi quale fosse stata l’ultima volta in cui avessi pensato, per poter ricordarne la posizione.
Non ci riuscii.
“A che pensi?”
Non so da dove mi uscì quel tono confidenziale –da me, sempre così fastidiosamente timida e insicura− eppure uscii, liberandosi dalle catene che lo imprigionavano.
Le diedi del tu.
“A tanto e a niente. A dove mi deciderò a scendere e se soprattutto lo farò.”
“Vorresti rimanere qui in eterno?”
“Ne valesse l’eternità, ne avrei tutti i motivi per farlo.”
Ci penso un attimo. Non ha tutti i torti.
“Ma in quel caso a cosa ti servirebbe l’eternità?”
“Questa è appunto un’altra delle domande per cui cerco una risposta”.
Stavolta è lei a sembrarmi in qualche modo curiosa, sorpresa da… da me?
O forse no, forse è solo un caso. Una personcina tipica e uguale a tutti gli altri come me non potrebbe mai essere fonte di curiosità.
Eppure, a sfidare ogni mia certezza, i suoi occhi rimanevano fissi su di me.
“Sei strana” mi fa, dopo un po’.
Strana? Io?
Iniziai a chiedermi se stesse davvero parlando con me. Arrivai addirittura ad ipotizzare che sì, forse stava parlando con me, ma con un’altra me, qualcos’altro che si è impossessato di me al momento in cui l’avevo vista. Qualcosa che m’aveva fatto divenire più libera… o forse no, solo diversa.
Perché la me solita, quella di sempre che conoscevo da che è nata, non era strana, anzi. Ma solo incredibilmente noiosa.
“Strana in che senso?”
“Nel senso che pensi.”
“…eh?”
“Hai capito. Stai lì, pensi… ma sei al dritto. Vedi le cose chiare come sono eppure riesci a metterle in discussione ed usarle per pensare. Come fai?”
E per la prima volta in vita mia, abbassai toatalmente ogni mia difesa e scoppiai in una risata originatasi fin dal fondo dell’animo, in un violento attacco di ilarità.
Strana sì, forse. Per tutto quel tempo sprecato a riflettere riguardo al mio essere come gli altri.
Per tutto quel tempo perso e portato via all’eternità.
Scelsi di rimanere in quel vagone per varie ragioni: una era la compagnia, l’altra il desiderio di pensare. Le altre invece erano pretesti.
Pesandomi la borsa, dopo aver chiesto se fosse libero uno dei posti accanto ce la lasciai sopra: io personalmente non avrei mai osato mettermi a sedere. Se non altro per non dover tollerare l’indecisione di scegliere in quale verso mettermi.
Inoltre, più la guardavo e più la trovavo gradevole a guardarsi.
Non avrei mai osato farle delle foto, almeno non delle altre, ma ero sicura che la sua figura mi sarebbe rimasta negli occhi a lungo.
“Tu dove vai?”
“In realtà non lo so neanch’io. So solo dove non voglio essere, da dove sono fuggita: casa mia. Per il resto… sono confusa. Non faccio mai cose così stupide.”
Consapevolezza.
Imbarazzo.
Quell’insieme di precetti e norme educative che ti hanno imposto e che vengono a galla solo in quei determinati momenti in cui non devono.
Arrossire in modo violento.
Proprio io, agire in modo tanto avventato per essere attaccata da uno sbaglio tanto grande! Definire “stupida” un azione che espressamente compiuta dalla persona che mi sta di fronte, e oltretutto parlare con una simile libertà, e poi dei miei affari personali… cosa cavolo m’era saltato in mente?
“C’è qualcosa di estremamente… meraviglioso, nell’inconsapevolezza.” Disse lei, ad un certo punto, continuando a guardarmi ma incurante del mio imbarazzo: “So che non riesci ad accettarla. Alcuni non l’accettano neppure dopo la morte, preferiscono piuttosto nascondersi dietro una falsa cultura.”
Sorrisi.
Quel sorriso, quel singolo istante, me lo ricordo nitidamente ancora adesso. Ricordo anche tutte le sensazioni, anche che mi ci volle un attimo per dirmi che non era divertente, che era una cosa stupida e che pur avendo sorriso nel momento sbagliato non sarei stata giudicata.
“Però, resta il fatto che non so dove andare. Non ho neanche comprato il biglietto… e dire che lo faccio sempre. Ho paura dei controllori.”
“Di questo non preoccuparti, io ho due biglietti. Entrambi convalidati.”
“Due biglietti?”
“Già.”
“E perché? Non ha senso!”
“Non posso negarmi di fare tutte le cose che non hanno senso. Solo le bestie vengono rilegate nelle gabbie dall’uomo, per invidia o per utilità, ed io sono estranea a questi patti.”
Anche questa volta risi di gusto. Tutto, in quella personalità, esprimeva ciò che non ero mai stata e ciò che avrei voluto essere. Era perfetta e totalmente sbagliata, insieme.
Era meravigliosa.
Passarono le ore.
Passarono le ore ed iniziai ad annoiarmi.
Immagino sia normale, passandole a parlocchiare con una persona del genere. Una persona così, che sta al contrario, a cui probabilmente è arrivato pure il sangue al cervello e non ragiona bene.
Quando giungemmo al capolinea, ore ed ore dopo, lei rimase lì.
“Ci muoviamo?” le chiesi, desiderando scendere.
“Non credo. Rimarrò qua.”
“Cosa?”
“Già.”
“E perché scusa? Mi parli di libertà, mi parli di… oh, dai, passi un pomeriggio intero a parlarmi, mi parli delle tue idee, mi parli delle tue certezze, dei tuoi pensieri… e ora rimani lì?”
In quel momento si mosse.
Piano, con una lentezza spaventosa, quasi da malato, si girò e si mise a sedere sul suo posto, davanti a me, per poi alzarsi ed arrivare a guardarmi negli occhi, di fronte a me, la distanza di un respiro.
Vidi una sua caratteristica inquietante, e ancora oggi mi resta difficile capire come mai non me ne accorsi prima, al primo istante, quando la osservai bene.
Forse perché quella caratteristica non era stata colta dall’obiettivo.
Aveva gli occhi rossi, ed intendo degli occhi rossi davvero, come una persona li può avere blu o marroni.
Aveva gli occhi rossi. Talmente rossi da ricordarmi il sangue. E la morte. E tante altre cose spiacevoli che mi sentivo in colpa di provare.
Aveva gli occhi rossi.
“Sono talmente libero da non poter sopportare di stare con qualcuno che non mi ama, o di fare qualcosa che non amo. Tu… invece tu scappi da chi ti ama per pura paura, e ti attacchi a me non solo perché sono diverso dalla tua noiosa definizione di normalità, ma perché sei disperatamente alla ricerca di compagnia, e sei spaventato dalla possibilità di cadere nella solitudine più nera, tanto che appena m’hai visto hai cercato di convincerti che io sia come te. Non lo sono. Mi spiace.”
Poi svenne.
Io fuggì via.
Lui forse era malato, e lui forse era una lei.
Ma… era così dannatamente felice, tanto felice da non dover perdere tempo a dimostrarlo, che continuo ad invidiarlo ogni volta che penso a lui.
Anche se fosse morto, lo invidierei lo stesso.
Perché nonostante i pensieri, nonostante io avessi tali capacità da poter fare quello che lui non riusciva –poter riflettere sulla realtà in piedi, continuando a vedere il mondo in maniera chiara – non sono mai riuscita a diventare libera come lui.