L’angelo biondo

Questo qui è un racconto brevissimo scritto lo scorso anno circa la diversa attitudine a scrivere emersa in una discussione tra aspiranti scrittori. Sarei contenta di conoscere eventuali pensieri scaturiti da questo post.

L’angelo biondo si avvicina: riccioli d’oro, occhi cielo. Non riesco a sostenere il suo sguardo nella paura che mi giudichi impura.

Imbarazzo.

L’angelo biondo parla ma sa anche stare zitto. Se trova di cui parlare, se ne infischia delle convenzioni e fa stare zitti gli altri. L’angelo biondo ha le sue idee e le ha taciute per troppo tempo: al cospetto di Dio non c’è amore per le idee. L’amore elevato alla spiritualità è accettazione della volontà di Dio, beatitudine e conoscenza. All’angelo biondo piace il suo rapporto con l’eterno – è più un naturale modo di essere che altro – ma prova orgoglio per le sue idee. Mi dice che vuole scrivere, e che non vuole fare altro.

La voce “scrivere” provoca trambusto sull’altra spalla: non uno ma due diavoli si spintonano nella volontà di presentare le loro attitudini come superiori. Sono l’Accidia e il Successo a tutti i costi.

Lei è alta, bella. Presenta ricercatezza nel parlare, ma è trascurata nel vestire: un camicione che non è della sua taglia, pantaloni non adatti alla stagione. La sua coda appuntita è acciaccata e tradisce la sua abitudine a stare seduta troppo a lungo.

Parla di ispirazione, cita nomi di grandi letterati. Fa il verso all’angelo biondo: scrivere senza riserve è indice di insensatezza, bisogna interrompersi e con umiltà osservare ed imparare. È fondamentale analizzare i capolavori altrui, criticare il criticabile, al fine di accrescere il proprio sapere. “Lascia stare la penna, non muovere quelle tue dita sulla tastiera o produrrai solo merda: l’imperfezione non merita d’essere esposta al pubblico disprezzo. Non sfogare il tuo genio col rischio di generare prodotti immeritevoli. Aspetta tempi migliori, aspetta”.

Il Successo a tutti i costi intanto le fa uno sgambetto e Accidia si trova per terra: in risposta lei si racchiude a gomitolo per terra. Nessuno la nota quando incomincia a piangere, preferendo tutti a lei le parole del giovane Successo a tutti i costi: “se non ti dai da fare non andrai mai da nessuna parte. Il riconoscimento non ti viene dato dal nulla, devi spremere ogni goccia di sangue che c’è in te per poter riuscire”.

Successo ad ogni costo ha gli occhi cerchiati di nero e i capelli corvini, ricci quanto quelli dell’angelo biondo che sta zitto e guarda da un’altra parte. L’angelo biondo non è un santo che verrebbe giudicato tale da noi umani: non considera i nuovi arrivati degni di risposta e continua a tacere, cocciuto com’è.

Il demone corvino non esiste davvero, così come non esistono gli altri: in lui ci sono tutti gli scrittori e i giornalisti che hanno l’unico obiettivo di fatturare senza desiderio alcuno di mantenere la qualità dei loro scritti al livello della decenza. “Non vali nulla” gli dice Accidia, che è invece parte di quello spirito critico rozzo e sfacciato di chi commenta l’altrui prodotto senza poter pensare di fare loro qualcosa da sé. È guerra: forconi alla mano, la spalla è presto un campo di morte senza sopravvissuti.

Mi giro: l’angelo biondo è volato via dal disprezzo di stare con gente così poco degna.

Sono sola

Non posso sostenere il peso delle parole che sto per scrivere nella paura che mi giudichi senza talento o, peggio, impura.

Faenza.

Androginia

Quel che segue è un racconto che scrissi in quarto superiore per un concorso interno alla scuola. Al di là della qualità che possa avere, imbattermici e riflettere su come le idee base che mi stimolano la scrittura siano tanto diverse allora e adesso mi ha un poco emozionato. 

 

Appena aprii la porta del vagone, la vidi: avrà avuto la mia età, o forse un po’ meno, e trasmetteva un’aria di tranquillità e pace.

In qualche strana maniera sembrava stare comoda, nonostante fosse – ed è questo ciò che più mi premeva dire− a testa all’ingiù.

Trasmetteva comunque una certa aria di compostezza: le ginocchia, appoggiate alla cima dello schienale, erano accostate, così come i piedi penzolanti sul retro.

Aveva un braccio disteso a toccare il pavimento sotto di sé, certo, ma non a caso si può parlare di una forza di gravità che ci spinge verso terra.
Approfittando della macchina fotografica che, al solito, mi penzolava al collo, le scattai una foto, perché anche quell’immagine curiosa rimanesse tra i miei ricordi.

Non so se fu colpa del flash, della mia solita mancanza di grazia nei movimenti o di quella forza che fa accadere le cose anche quando non vuoi o anche quando non puoi capire razionalmente la loro importanza, ma lo scatto fece giusto in tempo ad imprimersi sulla pellicola che lei aprì gli occhi.

Dico “lei” perché è ciò che pensai al momento… che fosse una ragazza, insomma. Ma non so cosa mi portò a dedurlo.

Aveva i capelli molto corti e dal corpo minuto non trasparivano forme che potessero venir considerate come un’auspicabile seno, eppure le lunghe ciglia e la sensazione di dolcezza che dava con il solo essere vista le davano un definito carattere femmineo.

Pur avendo aperto gli occhi, non mi disse nulla: non mi chiese chi ero, né perché la fissavo, né mi urlò contro per averla fotografata in quella bizzarra situazione. Iniziò a guardarmi e continuò, semplicemente.

“M-mi scusi” le feci allora “l-l’ho forse svegliata?”.

Lei mi sorrise impercettibilmente.

“No, figurati. Non stavo dormendo.”

Anche la sua voce era dolce, pur non avendo neanch’essa un carattere definitivamente maschile o femminile.

Fui indecisa per un momento se scusarmi o no per la foto, dato che l’educazione mi invogliava a farlo e al contrario il buon senso no. Insomma, chi mi poteva assicurare che se ne fosse accorta davvero? Scusarmi m’avrebbe solo portato ad incolparmi.

“Ma… se non fosse  per lei troppo disturbo… potrei chiederle perché si trova in quella posizione?”

“Perché sto pensando”

Eh?

Mi chiesi quale fosse stata l’ultima volta in cui avessi pensato, per poter ricordarne la posizione.

Non ci riuscii.

“A che pensi?”

Non so da dove mi uscì quel tono confidenziale –da me, sempre così fastidiosamente timida e insicura− eppure uscii, liberandosi dalle catene che lo imprigionavano.
Le diedi del tu.

“A tanto e a niente. A dove mi deciderò a scendere e se soprattutto lo farò.”
“Vorresti rimanere qui in eterno?”

“Ne valesse l’eternità, ne avrei tutti i motivi per farlo.”

Ci penso un attimo. Non ha tutti i torti.
“Ma in quel caso a cosa ti servirebbe l’eternità?”
“Questa è appunto un’altra delle domande per cui cerco una risposta”.

Stavolta è lei a sembrarmi in qualche modo curiosa, sorpresa da… da me?

O forse no, forse è solo un caso. Una personcina tipica e uguale a tutti gli altri come me non potrebbe mai essere fonte di curiosità.

Eppure, a sfidare ogni mia certezza, i suoi occhi rimanevano fissi su di me.
“Sei strana” mi fa, dopo un po’.
Strana? Io?

Iniziai a chiedermi se stesse davvero parlando con me. Arrivai addirittura ad ipotizzare che sì, forse stava parlando con me, ma con un’altra me, qualcos’altro che si è impossessato di me al momento in cui l’avevo vista. Qualcosa che m’aveva fatto divenire più libera… o forse no, solo diversa.
Perché la me solita, quella di sempre che conoscevo da che è nata, non era strana, anzi. Ma solo incredibilmente noiosa.
“Strana in che senso?”

“Nel senso che pensi.”

“…eh?”

“Hai capito. Stai lì, pensi… ma sei al dritto. Vedi le cose chiare come sono eppure riesci a metterle in discussione ed usarle per pensare. Come fai?”
E per la prima volta in vita mia, abbassai toatalmente ogni mia difesa e scoppiai in una risata originatasi fin dal fondo dell’animo, in un violento attacco di ilarità.

Strana sì, forse. Per tutto quel tempo sprecato a riflettere riguardo al mio essere come gli altri.
Per tutto quel tempo perso e portato via all’eternità.

Scelsi di rimanere in quel vagone per varie ragioni: una era la compagnia, l’altra il desiderio di pensare. Le altre invece erano pretesti.
Pesandomi la borsa, dopo aver chiesto se fosse libero uno dei posti accanto ce la lasciai sopra: io personalmente non avrei mai osato mettermi a sedere. Se non altro per non dover tollerare l’indecisione di scegliere in quale verso mettermi.
Inoltre, più la guardavo e più la trovavo gradevole a guardarsi.
Non avrei mai osato farle delle foto, almeno non delle altre, ma ero sicura che la sua figura mi sarebbe rimasta negli occhi a lungo.
“Tu dove vai?”
“In realtà non lo so neanch’io. So solo dove non voglio essere, da dove sono fuggita: casa mia. Per il resto… sono confusa. Non faccio mai cose così stupide.”

Consapevolezza.

Imbarazzo.

Quell’insieme di precetti e norme educative che ti hanno imposto e che vengono a galla solo in quei determinati momenti in cui non devono.

Arrossire in modo violento.

Proprio io, agire in modo tanto avventato per essere attaccata da uno sbaglio tanto grande!  Definire “stupida” un azione che espressamente compiuta dalla persona che mi sta di fronte, e oltretutto parlare con una simile libertà, e poi dei miei affari personali… cosa cavolo m’era saltato in mente?
“C’è qualcosa di estremamente… meraviglioso, nell’inconsapevolezza.” Disse lei, ad un certo punto, continuando a guardarmi ma incurante del mio imbarazzo: “So che non riesci ad accettarla. Alcuni non l’accettano neppure dopo la morte, preferiscono piuttosto nascondersi dietro una falsa cultura.”

Sorrisi.

Quel sorriso, quel singolo istante, me lo ricordo nitidamente ancora adesso. Ricordo anche tutte le sensazioni, anche che mi ci volle un attimo per dirmi che non era divertente, che era una cosa stupida e che pur avendo sorriso nel momento sbagliato non sarei stata giudicata.
“Però, resta il fatto che non so dove andare. Non ho neanche comprato il biglietto… e dire che lo faccio sempre. Ho paura dei controllori.”
“Di questo non preoccuparti, io ho due biglietti. Entrambi convalidati.”

“Due biglietti?”

“Già.”
“E perché? Non ha senso!”

“Non posso negarmi di fare tutte le cose che non hanno senso. Solo le bestie vengono rilegate nelle gabbie dall’uomo, per invidia o per utilità, ed io sono estranea a questi patti.”
Anche questa volta risi di gusto. Tutto, in quella personalità, esprimeva ciò che non ero mai stata e ciò che avrei voluto essere. Era perfetta e totalmente sbagliata, insieme.
Era meravigliosa.

Passarono le ore.

Passarono le ore ed iniziai ad annoiarmi.

Immagino sia normale, passandole a parlocchiare con una persona del genere. Una persona così, che sta al contrario, a cui probabilmente è arrivato pure il sangue al cervello e non ragiona bene.
Quando giungemmo al capolinea, ore ed ore dopo, lei rimase lì.
“Ci muoviamo?” le chiesi, desiderando scendere.
“Non credo. Rimarrò qua.”
“Cosa?”
“Già.”
“E perché scusa? Mi parli di libertà, mi parli di… oh, dai, passi un pomeriggio intero a parlarmi, mi parli delle tue idee, mi parli delle tue certezze, dei tuoi pensieri… e ora rimani lì?”
In quel momento si mosse.
Piano, con una lentezza spaventosa, quasi da malato, si girò e si mise a sedere sul suo posto, davanti a me, per poi alzarsi ed arrivare a guardarmi negli occhi, di fronte a me, la distanza di un respiro.
Vidi una sua caratteristica inquietante, e ancora oggi mi resta difficile capire come mai non me ne accorsi prima, al primo istante, quando la osservai bene.
Forse perché quella caratteristica non era stata colta dall’obiettivo.
Aveva gli occhi rossi, ed intendo degli occhi rossi davvero, come una persona li può avere blu o marroni.
Aveva gli occhi rossi. Talmente rossi da ricordarmi il sangue. E la morte. E tante altre cose spiacevoli che mi sentivo in colpa di provare.

Aveva gli occhi rossi.
“Sono talmente libero da non poter sopportare di stare con qualcuno che non mi ama, o di fare qualcosa che non amo. Tu… invece tu scappi da chi ti ama per pura paura, e ti attacchi a me non solo perché sono diverso dalla tua noiosa definizione di normalità, ma perché sei disperatamente alla ricerca di compagnia, e sei spaventato dalla possibilità di cadere nella solitudine più nera, tanto che appena m’hai visto hai cercato di convincerti che io sia come te. Non lo sono. Mi spiace.”

Poi svenne.

Io fuggì via.
Lui forse era malato, e lui forse era una lei.
Ma… era così dannatamente felice, tanto felice da non dover perdere tempo a dimostrarlo, che continuo ad invidiarlo ogni volta che penso a lui.

Anche se fosse morto, lo invidierei lo stesso.
Perché nonostante i pensieri, nonostante io avessi tali capacità da poter fare quello che lui non riusciva –poter riflettere sulla realtà in piedi, continuando a vedere il mondo in maniera chiara –  non sono mai riuscita a diventare libera come lui.

Intimità no.2

Sto lavorando ad un ciclo di racconti molto brevi, quasi ritratti, sull’intimità. Pubblico questo qui con un po’ di imbarazzo, ma credo che possa meritare un poco.

L’azione è sopravvalutata. Lo pensava guardandolo steso vicino a sé nel letto, gli occhi chiusi, il respiro pesante e la pace del mondo. Da lui si propagava un senso di tranquillità infinità, un’innocenza si andava ad intrecciare ai ricci scuri dei suoi capelli e della sua barba, un corpo da uomo che solo poteva provare dei sentimenti da bambino, una dolcezza infinita e l’affetto per lei.

Tutti al di fuori di quella stanza e di quel respiro parlavano di sesso. Ci pensava, lei, scendendo dal loro letto comune e andando scalza in cucina per rinfrescarsi con un bicchiere d’acqua ghiacciata: tutti parlavano di sesso e chissà come davano a ciò una tanto grande importanza.

Sorseggiando quell’acqua fresca lei non poteva negare a se stessa di amare lui, di amarlo in maniera animale per ciò che lui era mangiando, dormendo e sudando, il tutto così distante dai più celesti ideali, lo amava e sapeva che lui amava lei, senza doverselo dire, in un’unione sentimentale suprema, in un godimento intellettuale senza fine, un orgasmo culturale.

Rimettendo la bottiglia d’acqua in frigorifero e cercando di sistemarsi i capelli in maniera che non le causassero più caldo del necessario, lei pensò a quando si conobbe con lui, alla prima volta che lo abbracciò, a quando prese consapevolezza che il corpo di lui era capace di darle delle certe reazioni, che lei stesa causava in lui una certa reazione, e che era impossibile ormai abbracciarlo senza sentire il gonfiore nei pantaloni di lui premerle addosso.

Avevano preso l’abitudine di dormire l’una a casa dell’altro a discapito di ciò che altri avessero potuto pensare, chissà quanti effettivamente li immaginavano come coppia, come uomo e come donna che amandosi si baciavano, si toccavano e facevano l’amore.

Lei tornò a stendersi sul letto accanto a lui consapevole dell’assurdità di ciò: quel loro legame aveva impedito ad entrambi di costruirsi delle storie sane l’uno e l’altra con altre persone, lei non aveva appuntamenti di sorta da mesi, lui addirittura non aveva una donna da un anno. E come faceva quel loro legame a perpetuarsi?

Non c’era un vero bisogno tra di loro di una sessualità. Lei si sentiva piena e penetrata da lui ogni volta che lui leggeva e commentava i racconti che lei scriveva, ogni volta che commentavano uno stesso libro o recitavano una poesia assieme era per loro il raggiungimento dell’unione massima delle loro menti.

Ricordava di una volta che recitarono assieme “La pioggia nel Pineto”, spinti da un riferimento dannunziano che lei riconobbe da uno scritto di lui: lei ad occhi chiusi assaporava la musicalità delle parole mentre lui, prendendo un suo taccuino in cui aveva trascritto l’intera poesia, la recitava, gli occhi sulla carta e almeno una delle mani libera ad esprimere in gesti l’emozione che lui stava provando attraverso quelle parole e quell’unione di sentimenti con lei.

Ma lui continuava intanto a dormire, bello, liberato dall’incoscienza del sonno da precetti morali, dubbi, regole di buona condotta: le gambe allargate, il pigiama aggrovigliato che lasciava intravedere la sua pancia da alcolista troppo giovane per la sua giovane età. Lui era comunque molto attraente, con quelle ciglia lunghe, e quelle labbra che, chissà, che sapore avrebbero avuto.

E con questo lei chiuse gli occhi, senz’aggiungere altre parole a quella sua riflessione mattiniera, abbandonandosi al riposo.

 

Passato, instagram, futuro.

Ecco cosa succede.

Creai questo blog un anno fa, il 12 luglio 2015, per avere un posto dove vomitare i miei racconti brevi, le mie idee, o anche solo il dialogo interiore che ho costantemente su me stessa. Giuro, nella mia testa non faccio altro che raccontare storie, che siano vere o solo balle, ad un interlocutore che sono di nuovo io, ma essendo fissata con la forma le ripeto costantemente, e finiscono col confondermi se non le vomito.

Tutto bene finché da quel che volevo fosse una storia molto breve nasce un racconto più lungo. Continuo col racconto lungo su un file word sul pc, mi piace, ma sono pur sempre all’ultimo anno di triennale e devo scrivere la tesi, e per questo i momenti in cui sto al pc vanno sempre meno dedicati a “il poeta e la bugiarda” (titolo provvisorio del racconto), e sempre più a “the psychobiology of postpartum depression” (la tesi).

Succede che mi laureo due giorni fa, e che intanto su Instagram ho iniziato a postare foto di libri acquisendo qualche follower, mentre il profilo Instagram è legato a questo blog. Aumentano le visite al blog, ed io intanto ho comunque più tempo, e non so se tornare al mio racconto lungo, ai miei racconti brevi qui, se invece iniziare a scrivere recensioni di libri, come ho iniziato a fare su Instagram e su facebook, magari appoggiandomi ad un altro blog.

Succede questo.

Su instagram mi trovate come lastranastoriadibetsy.

Su facebook per favore non trovatemi.

Grazie

xx

Toyboy

Alessia si è lasciata da un po’. Una relazione insignificante, un paio di mesi, qualche bacio a stampo sulle labbra. Una punta di lingua, una volta. Alessia è comunque una ragazzina e non ha ancora nessuna consapevolezza di sé, del suo corpo: papabile le è solo la mancanza, un vuoto intorno a lei. Non riesce bene ad accettare il rifiuto.

Alessia è brava a reagire, e inizia a raccogliere i pezzi del suo vecchio gruppo d’amici spazzato via dalla rottura: conosce gente nuova, ha di nuovo gente intorno. Tra la folla, questo ragazzo di nome Marco, sempre gentile con lei, un bravo ragazzo con cui è bello parlare.

Alessia, ad un certo punto, capisce i sentimenti di Marco nei suoi confronti. Ne è onorata, ma conosce se stessa e sa di non essere pronta per una relazione. Non si può amare senza amarsi, e lei si sente fragile, non basta a se stessa. Nessuno si merita di essere usato per dimenticare qualcun altro.

Alessia chiede a Marco di vedersi in privato, Alessia gli dice che non è giusto che lui aspetti lei quando lei è incapace di sapere chi è e cosa prova, né chi sarà e cosa proverà. Gli dice che rispetta i suoi sentimenti, ma che se lei rispondesse all’impulso di voler del bene a lui, adesso, non sarebbe per affetto per lui ma per mancanza dell’altro.

Marco sorride e le dice che a lui va bene ciò che decide lei. Perché in fondo, gli è capitato già di essere usato finché la ragazza non avrebbe trovato di meglio, e se anche lei voleva farlo, lui sarebbe stato contento. Sarebbe almeno stato con lei un poco.

Alessia capisce che Marco non si ama e non si è mai amato. Ed è forse ingiusto, ma un fiore di repulsione cresce in lei.

Cotte adolescenziali ed altri mali

Quando studio capita che la linea dei miei pensieri colpisca con violenza un argomento neutro (o più probabilmente molto scemo) e che con difficoltà io mi ritrovi a dover riprendere il filo della mia attività.

Ho sempre cercato di convincermi che scrivendo di questi argomenti neutri (o molto scemi) io me ne possa liberare. Questo nonostante vari tentativi falliti, ma visto mai che in vita mia riuscissi a trovare un modo per non morire di fame usando gli argomenti molto scemi.

Fingo di essermi liberata dall’adolescenza perché il numero dei miei anni si è depurato di quel “teen” da scuola secondaria, e con un fasullo errore di traduzione non essendo più teenager dico di non essere più adolescente. La psicologia dello sviluppo mi da torto.

Ma arriviamo al punto che mi premeva, all’argomento scemo che mi stava impedendo di studiare: le cotte adolescenziali. Non so se è una caratteristica peculiare mia, ma posso dire che alle superiori ho davvero avuto troppe cotte e per gente davvero troppo strana. 

Il fatto è che nel post-pubertà non avevo ancora neanche una minima idea di quel che potesse essere il mio ideale di uomo, e se guardo al mio passato mi ritrovo di fronte ad un’accozzaglia di schizofrenici, maniaco-compulsivi, inetti sveviani o, peggio, gente che come cazzo hai fatto a piacermi.

Laureati incapaci di mettere le acca al posto giusto, parenti di amiche cui attrazione dissimulava il mio disagio di studiare in un istituto femminile, bambocci senza personalità che avrebbero ricambiato i miei sentimenti con la stessa attitudine di una commessa che ti da gli spiccetti di resto quando vai a comprare le gomme da masticare con la moneta da un euro (una volta le brooklyn costavano 60 centesimi. Spero che non siano aumentate).

Vivo nel terrore che queste mie cotte adolescenziali vengano scoperte. Come quei colonnelli nazisti che son fuggiti dalla Germania poco prima della guerra e han pure cambiato nome ma ogni tanto vengono ritrovati e fregacazzi se sono a un passo dalla fossa ma vengono giudicati per i crimini di guerra lo stesso.

Perdonateli. Perdonatemi.

Guidare coi tacchi

Le ragazze alte son state spesso bambine alte. È così che a molte di loro è capitato di guardarsi davanti ad uno specchio per fissare le loro lunghe gambe e chiedersene la necessità. Ma l’esperienza è buona consigliera, e le bambine alte ben presto imparano che le loro lunghe gambe servono a collezionare un’innumerevole serie di graffi o lividi a dimostrare la loro testa fra le nuvole, il loro essere impacciate e distratte.

L’epoca dei tacchi per le ragazze alte non arriva mai. Provano ad iniziare sui sedici anni come le loro coetanee ma vengono fatte sentite inadeguate per questo da chi si tramuterà nelle loro nemesi. “Sei già alta, non ne hai bisogno, non lo fare”. Uguale per i ragazzi: costume vuole che siano più alti, e per favore non osare minare alla loro virilità se vuoi da loro un qualche supporto emotivo che sia reciproco.

La patente invece è qualcosa che di solito si associa ai diciotto anni di età, cui utilità non viene messa in dubbio per la necessità di raggiungere luoghi remoti ma necessari, nonostante per le ragazze alte rimanga mutamento incomprensibile: chi è instabile sulle proprie gambe come può condurre un veicolo?

Fu così che Martina, ragazza alta e pessima guidatrice, chiese alla madre (bassa) se fosse il caso di guidare coi tacchi alti: era una serata speciale e Martina voleva metterli. “E certo, che male c’è?” C’è che quando devi guidare un’auto trovarsi a due metri dal volante non è bello. Da una sensazione di estraneità. Quindi, ragazza alta, sai cosa? Guida con le scarpe da ginnastica.

IL PAP TEST ovvero: ignoranza e oscurantismo.

Scriverò un libro.

La protagonista sarà una generica B di vent’anni senza alcuna preoccupazione per la tesi di laurea. Ho già in mente l’incipit: B va dal medico di famiglia per chiederle se non è il caso di riparare al fatto che non ha mai visto un ginecologo in vita sua. Ci sta tutto che B viva in un paese in cui per una donna parlare di sesso è sempre visto un po’ male e che la madre di B sia un po’ cattolica vecchio stampo. Proseguo dell’incipit: il medico di famiglia chiede a B se ha già avuto un rapporto sessuale e la protagonista deve farsi piccola piccola per annuire.

Piccola piccola, sì, perché appunto l’ambientazione è l’ideale per far sì che B si vergogni ad aver vent’anni e una relazione fissa e a non aver perso la verginità l’altroieri. Come diceva Irene Grandi sullo stesso argomento: lasciala andare come va – come deve andare…

Fine del prologo: B abbandona lo studio del medico con due foglietti arancioni: il primo per la visita ginecologica e il secondo per il pap-test. Ha inizio dunque il primo capitolo, sull’ignoranza. B si fa le seghe mentali su cosa sia il pap-test e sul perché il medico le abbia fatto notare con tanta naturalezza la necessità di doverlo fare subito dopo aver perso la verginità, come spinto da una relazione causa-effetto che B non riesce a cogliere. L’ignoranza è nera e non vi sono punti di luce: la memoria delle lezioni d’educazione sessuale a scuola non sono di nessun aiuto, vi è sempre qualcosa che non viene detto. Il capitolo dell’ignoranza ha fine con l’unico frammento di conoscenza, il ricordo della modalità di prenotazione delle visite che è stata presentata a B alla consegna dei foglietti arancioni.

Il capitolo secondo è il fulcro dell’azione: B entra nell’edificio dove dovrà fare gli esami e a piano terra prenota la visita ginecologica per una data che non riesce a focalizzare posteriore ai tre mesi successivi. Ma quando la nostra protagonista si appresta ad andare al piano superiore per prenotare il pap-test ecco che iniziano le insidie.

Probabilmente aspettarsi un cartellone colorato con scritto “Hey tu, ventenne! Devi fare il pap-test?!? Allora segui la linea rossa per terra!” è un po’ irreale. Ma è anche irreale l’idea d’essere l’unica ventenne non vergine della città, o l’unica ventenne cui madre la mattina deve lavorare. L’assenza di una segnaletica significativa però, è reale. B sbaglia porta. Almeno tre volte. Il capitolo secondo si scioglie con il ritrovamento del posto dove si può prenotare il pap test.

Terzo capitolo: ovvero quello dell’oscurantismo. L’infermiera chiede a B se deve prenotare il pap-test con lo screening o il pap-test [STOCAZZO]. È ormai palese che a nessuno frega un cazzo di spiegare a B nulla mentre i paroloni cadono come polpette. B è sola e spaventata, porge il foglietto all’infermiera che fa segno di aver capito tutto (ma non spiegherà di certo nulla a B), prenotazione fatta: consegna di un nuovo foglietto (bianco) e saluti. Il terzo capitolo si scioglie con piccole informazioni nel foglietto della prenotazione (apparentemente non si può avere rapporti sessuali i giorni prima del pap test) e una ricerca su Internet. Chissà come cazzo facevano le ventenni quando non c’era internet.

Ora mi è finita l’ispirazione, ma giuro che quando avrò idee per la visita di B e l’arrivo dei risultati di B arrivo alla stesura vera e propria.

“Che genere di musica ascolti?”

Quella della musica è una di quei tipi di domanda che si fa quando non si sa cosa cazzo dire. Ci sono momenti in cui non cercare di interagire con l’interlocutore sembra brutto, c’è necessità di fingere interessamento, e allora si pesca tra le domande generiche, come appunto questa della musica, ‘ché tanto la musica piace a tutti.

Che sia una domanda balorda, poi, non c’è neanche da dimostrarlo. In vita mia non ho mai conosciuto qualcuno che effettivamente si limiti ad ascoltare un solo genere musicale. Seriamente, non è umano. Una domanda più significativa sarebbe “che rapporto hai con la musica?”, che è appunto ciò a cui sto pensando ultimamente.

Che genere di musica ascolti?

Quand’ero alle medie rispondevo elencando band che pensavo mi piacessero. In questo modo potevo crearmi una sorta di etichetta che mi permetteva di dimostrarmi un po’ alternativa ma parte di un gruppo più grande costituito dagli altri fans. Mi bastavano poche canzoni per spacciarmi per fan: per From Yesterday e The Kill dicevo di amare i 30stm, per Welcome to the Black P arade e Teenagers aggiungevo i mcr alla lista che comprendeva anche i Linkin Park e i Tokio Hotel (ma solo prima che facessero successo), e che si limitava ai video proposti da Mtv (otto anni fa ancora trasmetteva video musicali).

Che rapporto hai con la musica?

Adesso ho smesso di aspettare che la musica mi trovi, ed ho iniziato a cercarla. Youtube si è rivelata una florida sorgente di full album, che meglio si adattano al soddisfacimento delle due funzioni che ora la musica ha per me, e che definiscono il rapporto che ho con la musica (da ascoltatrice).

In primis, la musica mi serve da sottofondo allo studio ora che questo ha assunto una maggiore importanza nella mia vita. Con questo non voglio attribuirle un ruolo privo di importanza. Infatti conoscendomi ho realizzato quanto la mia concentrazione necessiti di una seconda stimolazione rispetto al testo o alle formule su cui si deve focalizzare. Questo perché una ridotta stimolazione mi porta a perdermi su pensieri sciocchi cui carattere verbale mi esclude dalla possibilità di studiare. Tra gli album che invece mi sono propedeutici alla concentrazione vi sono invece Satya e Tri dei My Sleeping Karma e Hayat dei Sakin (l’ignoranza della lingua turca mi permette di codificare le parole come musica).

La seconda funzione che la musica ricopre per me è accompagnarmi alla scoperta di me stessa. E qui parte la serie di album o di canzoni di cui non mi piace parlare, perché mi sembra rivelino troppo della sottoscritta o mi rendano vulnerabile. Farò un unico esempio: Loud city song di Julia Holter. Ho letto i lyrics solo di metà della prima canzone, ma la musica mi basta per ferirmi ogni volta che la sento. La sua voce e le singole note parlano al mio cuore direttamente, mi sento in qualche modo disorientata, la mia depressione e i pensieri di suicidio che ho mai avuto sono concreti come non mai, e avrei vergogna a dire a qualcun altro che amo questo album perché sentirei che equivalrebbe ad espormi troppo.

Anche se le sensazioni sono individuali soltanto. Non come le etichette.

Il potere della decisione

James ha il tipico viso da bravo ragazzo. È sorridente e disponibile, gli occhi grandi e azzurri sono lo specchio del suo animo candido.

Gli chiedo se sia favorevole o contrario al diritto d’aborto, lui mi guarda e risponde che crede che sia una decisione che spetti alla donna.

Dopo alcuni secondi aggiunge che l’anno scorso la sua ex ragazza rimase incinta, probabilmente per una dimenticanza nell’assunzione della pillola anticoncezionale. Avevano solo ventidue anni e la decisione era stata presa.

Gli chiedo come si sia sentito, ma lui mi risponde sereno. Non era decisione sua, la sua famiglia non aveva né i soldi per crescere un bambino né i soldi per interrompere la gravidanza. Nonostante questo ne parlò ogni giorno tutti i giorni con la ragazza.

Lei era benestante, una strada colma di possibilità davanti. Lui si manteneva lavorando durante l’università e con un minimo del contributo dei suoi, ancora un anno alla laurea. Riconosceva l’assennatezza della decisione.